Omelia del Vescovo Dionisio nella Divina Liturgia dell’Intronizzazione

1 dicembre 2020

«Se uno viene a me e non non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre…». Amare il padre e la madre è un comandamento della Torah (cf. Es 20, 12; Dt 5, 16) e Gesù lo conferma (cf. Mc 7, 9–13; Mt 15, 3–6), avvisando del rischio che questo amore possa impedire un’adesione totale al Signore, la messa in atto della sua volontà, la sequela materiale di Gesù.

Omelia del Vescovo Dionisio nella Divina Liturgia dell’Intronizzazione

Confesso di avere meditato tante volte questo testo del Vangelo e i suoi paralleli. I legami con la famiglia che sempre ho amato non mi hanno mai trattenuto nella mia missione, al punto di non essere stato presente ai funerali di mio padre, di mio fratello… sempre libero di seguire a Cristo nella gioia e nelle difficoltà.

Mai nella mia vita di sacerdozio ho costruito «torri». Poco dopo avere emesso i voti, il Superiore chiese a tutti gli studenti cosa volessero fare una volta ordinati sacerdoti. Non sapevo cosa rispondere, ma tanto per dare una risposta ho scritto: «Voglio costruire chiese!». Chiese vive, non muri. E di fatto, durante i miei quarantotto anni di sacerdozio, non ho mai costruito neppure una chiesa, ma la divina Provvidenza mi ha messo ha costruire templi vivi, concedendomi per tanti anni di svolgere il servizio di formatore nei Seminari. Non ho costruito muri, né torri, né ho pensato di partire in guerra: sono sempre stato libero di obbedire. Conosco i miei limiti, ma confido sempre nella guida dello Spirito Santo.

Al momento dell’imposizione delle mani nel corso dell’ordinazione episcopale, come in quella sacerdotale, chiederò solo di essere guidato dallo Spirito. E confesso di essere stato sempre esaudito. Come programma del mio sacerdozio e come lemma del mio episcopato ho scelto: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve!» (Lc 22, 27). Un proposito a cui credo di essere stato fedele.

Ho ricevuto nel battesimo il nome di Paolo e scelto nell’ordinazione religiosa il nome Dionisio. Al momento della scelta non ero cosciente del legame tra Paolo come missionario e Dionisio l’Areopagita come filosofo. Sempre mi sono ispirato a questo grande Apostolo, e come lui ho delle spine nel mio corpo, con le quali talvolta ho ferito i miei confratelli. Ne chiedo scusa!

Ho chiesto che si leggesse in questa Divina Liturgia l’ammonimento di Paolo al Vescovo nella Lettera a Tito. Vi esorto a pregare per me, perché possa seguire queste esortazioni.

Già nei dodici anni in qualità di Visitatore Apostolico per gli immigrati ucraini in Italia e negli otto trascorsi in Spagna avevo preso a cuore l’insegnamento di Papa Giovanni Paolo II nell’Esortazione Apostolica Pastor gregis (n. 5), secondo cui il Vescovo è chiamato ad essere «il padre, il fratello e l’amico di ogni persona», e in particolare di ogni sacerdote: è questo che ho cercato di essere.

Credo, altresì, che una delle caratteristiche più importanti di un Vescovo sia la capacità di ascolto nelle diverse accezioni di questa parola: ascolto del Padre celeste sull’esempio di Gesù Cristo, ovvero essere uomo di preghiera; ma anche ascolto della Chiesa e dei bisogni del popolo di Dio.

Seguendo l’insegnamento degli ultimi Pontefici, mi sono impegnato a essere sensibile, vicino al gregge e ai suoi sacerdoti, a sostenerli nelle difficoltà, affinché possano essere fedeli nel loro ministero e esemplari nella santità di vita. E come basiliano, con san Basilio ho imparato a essere «forte con i forti e debole con i deboli».

Mi sono sempre sentito missionario e evangelizzatore, chiamato a formare con i sacerdoti una fraternità sacerdotale. Siamo cresciuti, ma c’è ancora tanto da fare!

Lo so! Siamo agli inizi di un nuovo esarcato. Spetta a noi porre le fondamenta dell’amministrazione. In questo conto sull’aiuto di tutti: l’esarcato non è una mia proprietà; fa parte della Chiesa. E la Chiesa è di Cristo.

Confido nel vostro aiuto e nelle vostre preghiere.

Dionisio Lachovicz,

Esarca Apostolico
Roma, 1 ° dicembre 2020